VOLO "DIROTTATO": CRONACA DI UN RITARDO AEREO



Un viaggio è fatto di incontri, panorami, cibi di strada e... imprevisti.

È un rischio che il viaggiatore conosce, e lo mette in contro perché fa parte della strada che sta percorrendo.
Mi viene sempre in mente una frase tratta dal cartone Dragon Trainer, quando Stoick dice: "Siamo vichinghi, il rischio è il nostro mestiere".
Per noi viaggiatori è più o meno lo stesso: non dobbiamo combattere contro nemici o draghi, ma possiamo inciampare in qualche intoppo, che spesso non è dipeso da noi.

Il racconto che segue non l'ho scritto io, ma ogni tanto ospito qualche guest. Parla di un contrattempo, in una terra con culture e tradizioni diverse dalle nostre, ma che affascinano sempre.
Quando l'ho letto mi sono immaginata, riga dopo riga, tutta l'avventura, tra la curiosità di vedere come sarebbe andata a finire intervallata da qualche sorriso per la situazione a tratti surreale.

Buona lettura.




Aiuto il mio volo è stato dirottato.

Cronaca di un ritardo aereo.

Dopo una notte passata all'aeroporto di Francoforte mi ritrovo a Bruxelles, pronto a imbarcarmi sul mio volo per Freetown, con Brussels Airline. Ho un posto finestrino come piace a me, una vicina tranquilla che sta andando in Africa per nove mesi con Medici Senza Frontiere e un romanzo da finire. Si parte e in 7 ore è previsto l'arrivo a Freetown, Sierra Leone.

Dopo 6 ore però un annuncio gracchiante “Good morning ladies and gentlemen, captain speaking, …” dice che l’aereo non può atterrare a Freetown, ma che deve deviare verso Monrovia, Liberia. Effettivamente la tratta è multipla, cioè se tutto andasse come dovrebbe l’airbus dovrebbe atterrare a Freetown, far scendere parte dei passeggeri e poi proseguire per la Liberia. Ma c’è un problema con le luci dell’aeroporto di Monrovia, non funzionano. 
E l’aereo deve atterrare lì prima del calar del sole.



I passeggeri poco convinti iniziano a fare delle domande al personale, meno convinto ancora…Perché atterrare a Monrovia e non a Freetown visto che a Monrovia c’è il problema? E comunque un aereo non atterra grazie ai radar? E cosa succede ai passeggeri che devono scendere a Freetown?

Forse ho capito male!! Mi sembra tutto assurdo. Raggiungo il mio compagno di viaggio, americano, magari lui ha capito meglio di me e dei miei vicini il messaggio strozzato del capitano, ma lo trovo disorientato quanto me.

Poco prima dell’atterraggio il captain speaking gracchia ancora per dirci che hanno già organizzato un volo per la mattina dopo per i passeggeri diretti a Freetown. Bene, penso, e chissà ora come sarà organizzato l’aeroporto di Monrovia a sistemare mezzo aereo in qualche hotel! Il captain ci dice anche di aspettare a scendere dopo l’atterraggio, perché il personale di terra deve sistemare le faccende burocratiche per il visto di transito nel Paese. Aspettiamo allora, e intanto do un’occhiata all'aeroporto, piuttosto piccolo e fatiscente, ed effettivamente non vedo torri di controllo con sistemi radar…mah!

Dopo una mezzora possiamo scendere e sbrigare le pratiche di ingresso. Entriamo ed un grande soldato sorridente ci chiede il passaporto.

E se lo tiene.

Ha i passaporti di 80 persone nelle sue mani giganti. E sorride.

Ecco, mi sento nudo, sono ostaggio in un Paese straniero. Chiedo spiegazioni, ma mi viene detto dal soldato che questa è la procedura. Il personale di terra, spaesato, mi rassicura “non c’è problema, tengono qui i passaporti durante il transito, ora vi organizziamo un transfer per un hotel e vi diamo un voucher”. Io continuo a tenere la mano nella tasca dove di solito ho il passaporto e ho la sgradevole sensazione di aver perso le chiavi di casa.

Beh, meglio non pensarci e vedere cosa succede fuori dove intanto si sono ammassati gli altri viaggiatori davanti ad un piccolo autobus della Brussels Airlines, che ha una capienza di 20 persone; forse. 

Il primo gruppo parte ma io e tutti gli altri restiamo a piedi al caldo e all'umidità della serata liberiana, mentre l’equipaggio del nostro aereo ci sfila davanti e sale su dei SUV che li portano a riposare in qualche hotel di Monrovia. A proposito, ma quanto distanti siamo da Monrovia? Quanti autobus hanno qui per trasportarci? E se è solo uno quanto ci mette a fare avanti e indietro? La ragazza impaurita che si sta prendendo cura di noi dice che in un’ora dovrebbe arrivare un altro bus. Ho capito, meglio mettersi tranquilli e comodi... Qualcuno ci dice di andare a sederci nella sala d’aspetto, è più fresco. E c’è il Wi-fi. Che consolazione! Ci sono anche dei cartelli poco realistici appesi al muro in angoli nascosti:

Alcoholism is strictly prohibited

Drugs transportation is not allowed

Mi sento più rilassato allora! Tutti sono seduti su scomodissime sedie di metallo e giocano con il telefono, finché qualcuno si alza e allora tutti si alzano, deve essere successo qualcosa. C’è il bus. E’ sicuro. Ma in realtà quando sei in queste situazioni non fai un’analisi critica di quello che ti circonda e semplicemente ti adegui alla massa, sperando che la massa abbia ragione. Allora torniamo fuori e sì c’è un bus, che potrà portar via altre 10-15 persone. Intanto prendono i nostri nomi (stranamente finora nessuno l’ha fatto) e ci danno anche un bicchiere d’acqua. Ma il risultato non cambia. Dopo più di un’ora siamo ancora bloccati qui.

Come se non bastasse il sottofondo sonoro è terribile, qualche tipo di cicala africana fastidiosissima, anche se a sentirlo bene, sembra che ci sia un motivo che si ripete in questo gracchiare, ed è un motivo che mi ricorda le canzoni di Natale. Jingle Bells, Santa Claus is coming to town…ma si! Non sono cicale, sono le lucette di Natale appese all'ingresso dell’aeroporto, splendide, rosse e verdi, probabilmente in funzione da così tanto tempo che la canzoncina sta subendo una mutazione elettrogenetica. E’ tutto talmente surreale che non viene nemmeno da porsi la domanda sul perché a febbraio ci sono ancora le lucine di Natale appese…E sono sicuro che non risalgono al Natale scorso.

Dopo altre due ore di attesa vedo arrivare il mio bus. Mi faccio largo tra le persone, su questo devo riuscire a salire. Guardo meglio e riconosco lo scuola bus di Forrest Gump. E’ splendido, ma siamo sicuri che ci possa portare da qualche parte? Sembra vecchiotto e malandato. Non ha luci funzionanti, a parte le frecce, e ormai è buio.

Non importa, prendo posto, nessuno potrà farmi perdere la mia posizione, tanto sudata. Letteralmente. Siamo circa una ventina di persone con i loro bagagli a mano a riempire l’autobus. Siamo pronti, ma non si parte. Che succede ora? Altra mezzora ad aspettare senza ricevere alcuna informazione. Non si capisce. Non c’è un filo d’aria e i passeggeri cominciano ad innervosirsi; un signore in preda ad una produzione di sudore industriale comincia a inveire con la povera ragazzina della Brussels Airlines. Poi capiamo, ci sono 5 passeggeri che devono andare in un hotel differente perché quello dove è diretto il nostro bus non ha abbastanza stanze. Li fanno scendere. Partiamo!!Sì! l’autista mette in moto, ma dopo poche manovre si ferma di nuovo. E adesso?? Dopo altri 20 minuti risalgono a bordo i 5 appena scesi. Che confusione, non importa purché si vada e passi un po’ d’aria dai finestrini.

Ci muoviamo finalmente lungo strade buie che il bus non può illuminare più di tanto. Ma siamo tutti così stanchi che nessuno si rende conto del rischio. Prendo sonno cullato dalle buche e mi sveglio davanti ad un resort per osservare i famosi 5 che scendono e vanno al bancone della reception a ricevere le chiavi delle loro stanze. Tutti gli altri me incluso ancora schiacciati nel caldo-umido del bus americano, importato in Liberia quando già non avrebbe più dovuto circolare.

E poi le vedo. Due ragazze bionde che escono dall'entrata del resort e vanno verso un edificio che è chiaramente indicato come Spa. Forse sono ancora assonnato. Ma no, sono reali, in una situazione che di reale non ha nulla. A parte il caldo umido e la mezzora che trascorriamo sempre stipati ad aspettare il ritorno della nostra balia, ancora occupata a negoziare con la reception del resort. E il signore sudaticcio riprende a sbraitare contro di lei, scende, adesso la spezza in due, penso…

La situazione sta sfuggendo di mano, e allora ecco che arriva il pragmatismo africano. La ragazza ci fa scendere tutti, e ci dice che l’hotel “dovrebbe” avere stanze per tutti. Mentre lei cerca di capire meglio noi possiamo accomodarci al bancone del bar ed ordinare qualcosa da mangiare, al fresco dell’aria condizionata, guardando la replica del diciottesimo slam di King Roger a Melbourne. Il resort è al di sopra delle mie rosee aspettative, pulito, moderno, con piscina e spiaggia, anche se non mi sembra molto local. Finito di mangiare inizio a preoccuparmi per la stanza, come gli altri passeggeri. Capisco che se io e l’americano dividessimo una matrimoniale potrebbe essere più semplice per loro e ci darebbero la stanza subito. Siamo stanchi e la soluzione è più che accettabile ormai. Così finiamo in una stanza molto bella che fortunatamente ha sul letto un cuscino gigante lungo più di un metro che possiamo usare come divisorio per il nostro breve riposo. E’ ormai mezzanotte e alle 5 dobbiamo essere pronti per il ritorno verso l’aeroporto.

In 6 ore dall'atterraggio siamo riusciti ad avere un letto, e ora siamo intenzionati a goderci le nostre 5 ore di sonno.

Anzi 4 ore di sonno, interrotte da un urlo straziante “Wake up call!!!” che si ripete finché non apriamo la porta della stanza. “Breakfast is ready sir!”. Ma come? Sono le 4, manca un’ora alla partenza.

Inutile spiegare che nessuno aveva chiesto la sveglia. Meglio fare colazione e dirigersi nuovamente verso il bus dell’Alabama. Mi rendo conto mentre salgo che mi manca il maglione che avevo la sera prima, torno in stanza, non c’è, guardo meglio nel bagaglio, non c’è, e ricordo di averlo lasciato in aeroporto, nella sala d’attesa…Speriamo di recuperarlo più tardi. Salgo a bordo. Su tutto, le note di una canzone africana sparata a palla che racconta di Nairobi con toni metà tribali e metà caraibici.

Attendiamo altri 20, 30 minuti, non lo so qui si perde la concezione del tempo. Chissà per quanto questo bus resterà fermo in attesa dei passeggeri o di un guidatore. Non ci sono veri programmi tranne quello di vivere alla giornata. Non ci sono veri problemi tranne quelli che non si possono risolvere.

Partiamo, fuori è buio, e nonostante la musica riesco ad addormentarmi. Mi sveglio ad ogni sobbalzo, e ce ne sono parecchi. E mi sveglio anche quando all'improvviso il bus si ferma. Penso che siamo arrivati, ma no, siamo avvolti nella nebbia e il guidatore esce con una bottiglia d’acqua e inizia a lavare il vetro. Resto basito, ma ripartiamo e finalmente arriviamo anche all'aeroporto. Ci fermiamo ma non possiamo scendere per motivi ignoti, che diventano noti improvvisamente quando capiamo che avevano semplicemente impedito all'autista di farci scendere al terminal degli arrivi, invece che a quello delle partenze (incredibile che questo aeroporto abbia due terminal distinti, considerando che non ha nemmeno il radar).

Scendo al terminal partenze, saluto il bus di Forrest Gump, e mi ritrovo sotto una tettoia, a cercare di capire insieme agli altri se rivedremo i nostri passaporti. Per il momento l’unica sicurezza sono le lucette di natale che gracchiano l’odioso loop…!

Quasi subito arriva un soldato con tutti i passaporti e li distribuisce. Splendido. Ma delle carte di imbarco non c’è traccia. Dovremmo partire alle 8 e sono ancora le 6.30, quindi c’è tempo. Poi sono le 7. Poi diventano le 8, ed arrivano le carte di imbarco. Cioè, solo alcune. Chiaramente io non sono nel gruppo dei fortunati e resto fuori dall'aeroporto in attesa del biglietto fortunato. Nel frattempo qualcuno si è seduto per terra, qualcun altro è disteso per terra, siamo tutti stanchi e la musichetta stonata non aiuta per niente, anzi sembra una tortura inflitta apposta! Inizio ad avere allucinazioni uditive, e i suoni natalizi si sovrappongono alle voci delle persone; evidentemente non sono l’unico perché un ragazzo dell’aeroporto cerca di staccare con un rametto la spina che collega il filo delle lucette sul tetto alla corrente. Ma il bastoncino non basta. Il più alto del gruppo si avvicina, ma non è sufficiente nemmeno lui. Allora chiede aiuto ad una sua compagna di viaggio che sale sulle sue spalle e miracolosamente pongono fine alla confusione nella mia testa. Cinquanta persone iniziano spontaneamente ad applaudire e a ringraziare la coppia, io compreso. Sto decisamente meglio, anche se Babbo Natale continua a cantare nella mia testa e ci vorrà un po’ per farlo sparire.

Alla fine arriva anche la mia carta di imbarco. Forza, penso, ormai è fatta, se l’aereo non è ancora partito, visto che ormai sono le 9. Passo i controlli, e mi accomodo nella sala d’aspetto, che chiaramente non è quella in cui speravo di ritrovare il mio maglione perso la sera prima…peccato, ci ero affezionato! Dopo un’altra ora di attesa si apre il gate, usciamo a piedi dall'aeroporto fino ad un punto imprecisato dove viene a prenderci il bus, per portarci alla scaletta a 30 m di distanza. E finalmente posso salire a bordo.

Ora si riparte. Ma verso dove?

Un viaggio nel viaggio...





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